Con la sentenza n. 14838 del 16 dicembre 2024 (dep. 15 aprile 2025), la VI Sezione penale della Corte di cassazione interviene sulla vexata quaestio dell’utilizzabilità probatoria delle informazioni reperite sul web. Il caso nasce dal ricorso di F. R. S., condannato in appello dalla Corte d’Assise di Reggio Calabria, che deduceva – tra gli altri motivi – l’impiego, a suo dire illegittimo, di notizie tratte da siti Internet non meglio identificati. La Suprema Corte, annullando in parte con rinvio, offre indicazioni preziose per chi si confronta quotidianamente con prove digitali e open source intelligence (OSINT).
I giudici di legittimità richiamano gli artt. 187 e 194 c.p.p., che regolano l’oggetto della prova e le utilizzazioni delle dichiarazioni. Il punto dirimente è la tracciabilità della fonte: senza un riferimento chiaro a provenienza e attendibilità, la notizia online degrada a «voce corrente» priva di valore processuale. La Corte si colloca nel solco di precedenti come Cass. 46482/2023 e 21310/2022, ma rafforza il principio con un richiamo esplicito ai rischi di inquinamento cognitivo del processo penale.
Sono inutilizzabili a fini di prova le "fonti aperte" indefinite, ossia le notizie, prive di alcun riferimento alla loro provenienza, acquisibili dalla rete internet, posto che altrimenti si rischierebbe di far transitare nel processo, in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 187 e 194 cod. proc. pen., informazioni generiche, rientranti, "lato sensu", nell'ambito delle "voci correnti" e delle tesi personali. (In motivazione, la Corte ha precisato che sono, invece, utilizzabili – poiché riconducibili al concetto di "fatto notorio", ampliato dalle tecnologie informatiche – le "fonti aperte" accessibili tramite internet, di cui sia chiaramente individuabile la provenienza, quali documenti istituzionali, listini prezzi, valori di borsa, cambio valute, distanze stradali, accadimenti noti e incontroversi, etc.).
Commento: la massima sancisce un duplice principio. Da un lato tutela l’affidabilità del materiale probatorio, impedendo che semplici rumor online influenzino la decisione giudiziaria; dall’altro ammette l’ingresso di dati oggettivi e verificabili (es. listini ufficiali, rapporti istituzionali) ampliando la nozione di «fatto notorio» alla luce dell’evoluzione tecnologica. La Corte bilancia così esigenze di efficienza processuale e garanzie di attendibilità.
La distinzione tracciata dalla Cassazione può essere riassunta come segue:
La linea di confine impone a difesa e accusa di documentare con precisione URL, data di accesso, autore, eventuale certificazione temporale (art. 254-bis c.p.p.). In assenza di questi presidi, il giudice dovrà dichiarare la prova irrituale.
L’onere di dimostrare la qualificazione della fonte pesa su chi la introduce nel processo. Ciò comporta:
In ambito europeo, si ricorda come il Regolamento eIDAS e la Direttiva NIS 2 spingano verso standard elevati di sicurezza e autenticità delle informazioni digitali, rafforzando la ratio della decisione italiana.
La sentenza n. 14838/2024 rappresenta un tassello decisivo nel mosaico della prova digitale. Accoglie l’innovazione tecnologica senza sacrificare le garanzie di affidabilità del processo penale, ponendo professionisti e operatori di fronte a un bivio: adottare procedure robuste di digital forensics o rinunciare a una prova potenzialmente decisiva. In un’epoca di overload informativo, la Corte ricorda che non tutto ciò che è online può varcare la soglia dell’aula di giustizia.